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Camminare per comprendere

Ognuno di noi si porta dentro le sue strade: strade della memoria legate a persone, a cose scomparse, agli entusiasmi delle prime esplorazioni, ai luoghi dell’infanzia; strade del cuore popolate di visi, di luci particolari, di incontri; strade della vita, fondali e quinte del nostro teatro quotidiano. Se poi si ha la ventura di abitare da tempo le stesse strade, cresce dentro la convinzione di conoscerne l’intera trama e soprattutto di essere gli unici depositari degli snodi più segreti e più nascosti. Col passare degli anni si arriva perfino a rinominare una vasta area, come la Valpolicellaper esempio, pian piano solcata da una strada di castagni o un sentiero degli alberi rossi, il quale a sua volta parte dalla “brughiera”, proprio in corrispondenza del prato delle orchidee, mentre il giro dei ciliegi è molto più in basso e tocca anche la costa degli ulivi e così via.
Prima o poi ti capita però di scoprire che altri han camminato la stessa erba e le stesse pietre, altri han fermato gli occhi sugli stessi colori e le stesse figure, altri si son incuriositi e meravigliati per un albero, una marogna, una vecchia casa, un panorama. Vuol dire che questa terra, come tutte le terre, è disponibile ad ospitare le radici di chiunque e non solo di chi crede di averne bevuto ogni succo: è sufficiente stabilire un contatto non frettoloso e non superficiale. Infatti per essere adottati da una nuova “patria” (cosa sempre più utile visto l’andare del mondo) occorre qualche semplice accorgimento: in primo luogo occorre camminare, calpestare, con l’indolenza e la tranquillità di chi non ha mete precise e prefissate, ma anche misurare con i propri passi un ambiente di cui non si vuole perdere nemmeno un frammento, vedere con i propri occhi da vicino quello che si trova dentro un panorama ma di solito non si vede. In secondo luogo è necessario calarsi dentro le cose, dentro la storia, dentro gli uomini che secoli su secoli hanno costruito, modificato, sostituito, e anche deturpato: si deve imparare a cogliere nelle case, nei campi, nei singoli alberi, nei capitelli ai crocicchi, la voce, la mentalità, la logica dì chi li ha fatti, utilizzati, conservati. Capiterà magari di non cogliere, di non voler vedere le immancabili brutture antiche e soprattutto recenti, e anzi di guardare con una malcelata bonomia sia le case geometresche tutte gronde e poggioli, sia i nanetti dispersi fra tuie e araucarie, sia le dighe cementizie, ultimo baluardo, dicono, della viticoltura collinare. Ma non importa, perché nel frattempo si sarà presentata l’opportunità di gustare il nuovo verde minore delle siepi non più coltivate, o le ardite balconate delle marogne di calcare, o il fascino di una casa colonica da tempo disabitata o i pochi alberi residui di un curatissimo poderetto. Una volta che si è imparato a guardarsi attorno, a capire e ad apprezzare è quasi automatico arrivare alla terza fase di integrazione con l’ambiente, quella più personale e creativa. È il momento di ricomporre un proprio reticolo di strade, di percorsi; di riconoscere una trama sempre più fitta di simpatie e affinità con i singoli elementi del territorio in questione; di lasciarsi trascinare fuori dai tracciati dai propri occhi e dalle proprie gambe. Gli “incontri” a questo punto sono i più vari, ma sempre interessanti: ecco, ad esempio, il kitsch delle ringhiere e delle recinzioni, nato dall’insanabile scontro fra aspirazioni estetiche e pulsioni sociali; oppure la signorilità antica delle torri colombare a segnalare le più prestigiose corti contadine. Per non parlare delle fontane, alcune nascoste o abbandonate, tutte o quasi col mortificante “acqua non potabile”, dei capitelli e degli altri innumerevoli segni del sacro (croci in pietra e in ferro, persino qualche “crocetta” d’ulivo appesa al capo d’un mare, lapidi votive a rammentare una disgrazia non sempre evitata).
Ogni viaggiatore può specializzarsi in un suo campo esclusivo, magari ai margini o al di fuori della ricerca tradizionale: architettura e urbanistica delle marogne, ad esempio, oppure forma e funzione dell’orto domestico o del “casotto” in campagna, o anche cultura e tradizione della viticoltura e nella civiltà del vino in genere.
Ma poi ci sono i fiori, gli animali, le pietre stesse e la loro preziosa storia, i boschi di rovere/la e le macchie scure delle pinete, punteggiate di processionaria, e quindi gli aspetti più strettamente agrari del paesaggio: il rigoglioso mare di vigneti che a primavera cede il passo alle ondate bianche dei ciliegi in fiore, qualche campo di mais, gli alberi di pero, di noce, di fico, un tempo gioielli di ogni campagna, gli ormai pochi gelsi e l’invadente robinia, i viali di cipressi e i pioppi lungo i torrenti.
Un‘attenzione particolare meritano i posti di ristoro. Per gustare tutto il sapore occorre però non limitarsi all’assaggio di qualche piatto: bisogna annusare l’aria, per sentire brani di vita, di storia, disponibili nel contatto con i ristoratori quasi mai anonimi e impersonali (anche un brodo che sa di fumo è più eloquente di un vitello tonnato); bisogna stare attenti a cogliere il difficile equilibrismo fra tradizione e moda, fra la genuinità autentica e quella professionale, fra attitudine alla semplicità e voglia di pittoresco. Anche il menu va letto fra le righe, non tanto nella preoccupazione di essere turlupinati, quanto in quella di perdere un pretesto, un colloquio, una stretta di mano. Perché ogni itinerario parte per paesi, per luoghi per cose e arriva invece a popoli, persone, gente, uomini e alla fine, di solito, a se stessi.

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